Calcio è un gioco di palla al quale, anche in passato, partecipavano per diletto due schiere di giovani intenti a cercare di far passare oltre la delimitazione finale del campo avversario, un mediocre pallone fatto di stracci oppure composto da un involucro imbottito di fieno, paglia, capelli o piume e in tempi meno remoti, nella maggior parte dei casi, da una vescica animale gonfia d’aria e ricoperta di morbida pelle cucita a spicchi per ricavarne la rotondità.
Secondo l’antica tradizione il "gioco del calcio" è nato sulla cara, felice, inclita riva dell’Arno e soltanto dopo secoli è trasmigrato su quella del Tamigi dove, mutato il nome in Foot-ball (gioco della palla a piede) e affinate le regole, ha conseguito quella fama adesso universalmente riconosciutagli.
Il calcio fiorentino, detto anche "calcio in livrea", è un gioco a squadre disciplinato da regole, che affonda le sue radici in tempi immemorabili. Il primo vocabolario della lingua italiana del 1612, degli Accademici della Crusca, avvalora la tesi fornendo alla parola "Calcio" la seguente definizione:
(...) è calcio anche il nome di un gioco, proprio e antico della città di Firenze, a guisa di battaglia ordinata, passato da’ Greci a Latini, e da’ Latini a noi.
Quindi gioco "proprio e antico" di Firenze le cui origini, remotissime, vanno però cercate prima dai Greci e poi dai Latini.
Il "calcio fiorentino" pertanto non fu altro che uno dei tanti modi per allietare la balda gioventù, felice di dilettarsi con quel corpo sferico di varie grandezze, che sappiamo essere stato usato in tutte le parti del mondo.
In Grecia venivano comunemente effettuate ludiche ricreazioni con la palla, dai nomi "Feninda", "Episciro" e con quello più conosciuto di "Sferomachia" nel quale due gruppi di giocatori, contendendosi accanitamente la palla, offrivano uno spettacolo più agonistico, più vario e spettacolare che comprendeva, al tempo stesso, l’esercizio della corsa, del salto e della lotta.
Dai Greci, questo passatempo passò ai Romani i quali, col nome di "Harpastum" (strappato a forza) a loro volta lo giocavano su terreni sabbiosi, per cui il nome di harpastum era spesso aggettivato con pulverulentum.
Al gioco vennero applicate poche ma precise regole alle quali le due squadre, di ugual numero di giocatori, dovevano attenersi. La competizione aveva carattere virile ed aspro: zuffe, lotte serrate e continui corpo a corpo per il possesso della palla (che sollevavano un gran polverone) tempravano lo spirito e sviluppavano il fisico dei giocatori. Per queste caratteristiche fu il divertimento preferito dai legionari dell’esercito romano, che abitualmente lo praticavano. Quindi gioco militare, perché utile anche alla guerra e pertanto volutamente introdotto nell’addestramento dei reparti. E proprio l’harpastum, radicato nel costume di vita dei romani, venne "esportato" sicuramente da quei legionari che stanziarono nella "colonia Florentia" da loro fondata.
Sull’Arno poi, dal divertimento militare capitolino, prese vita il "calcio". Questo perché il gioco della palla era ormai entrato nel costume fiorentino e veniva combattuto in accaniti corpo a corpo nella polvere, con gran foga, anche con l’uso dei piedi e con certe regole ludiche. Il calcio, quindi, col tempo finì per divenire il gioco tipico della città, così come affermato dagli scrittori che ne hanno narrato usi e costumi. A Firenze l’antico gioco romano cambiò anche il nome, che da "arpasto" divenne "calcio" (termine che indica chiaramente uno dei modi con cui veniva preferibilmente colpita la palla) e con il nome anche alcune regole fondamentali. Si mantenne però inalterata la disposizione in campo dei giocatori d’arpasto, così derivata dallo schieramento nell’ordine di battaglia dell’unità tattica dell’esercito romano, suddivisa in quattro linee orizzontali parallele: i Veliti (fanti armati alla leggera e perciò molto veloci), gli Astati (armati di lancia), i Principi (componenti la fanteria pesante) e i Triari che rappresentavano l’ultima riga di difesa o di attacco. La prima linea più numerosa e compatta, la seconda più rada, la terza ancora più spaziata, mentre la quarta era tanto allargata da consentire, in caso di ripiegamento, ai Veliti di indietreggiare fra gli Astati, quindi senza pericolo di travolgimenti poter retrocedere tra i Principi ed infine ricompattarsi nei Triari. Queste quattro linee di battaglia furono riproposte ed esattamente mantenute nello schieramento del calcio fiorentino dagli "Innanzi o Corridori" (in numero di quindici), dagli "Sconciatori" (cinque) chiamati così perché spintonavano con risolutezza gli avversari per frenarne l’impeto, dai "Datori Innanzi" (quattro) e dai "Datori Indietro" (tre) che poi erano gli estremi difensori sui quali ricadeva l’ultima speranza di respingere e bloccare il pallone scagliato dagli avversari nell’intento di segnare la "caccia" vincente.
A questo punto, degno di rilievo e d’interesse, appare evidente come pure nella più moderna formazione delle squadre di Foot-ball di derivazione inglese, la disposizione in campo sia composta ugualmente sulle solite quattro linee: cinque attaccanti, tre mediani, due terzini ed un portiere! Effetto dell’Arpasto introdotto anche in Inghilterra dai legionari di Giulio Cesare, oppure suggerito dai mercanti e banchieri fiorentini che per ragioni di commercio e d’affari vi soggiornarono?
Il calcio veniva praticato a Firenze quotidianamente e in maniera estemporanea da tutta la gioventù direttamente per le vie o nelle piazze, con palle e palloni fatti a mano, i cui gusci di panno o di pelle tagliati a spicchi e ricuciti fra loro per modularne la rotondità, contenevano stracci e, nel migliore dei casi, vesciche d’animale rigonfie d’aria. Giocavano al calcio i ragazzi del popolo, i giovani e gli adulti durante le soste del lavoro e in occasione di qualche festa di rione. Con il passare del tempo il gioco, si caratterizzò nella modalità competitiva (non molto dissimile dall’attuale) che vide l’affermarsi di partite "organizzate", particolarmente sontuose e curate nella messa in scena, giocate esclusivamente da nobili cittadini, tra i quali i Medici ebbero un ruolo dominante specialmente con Francesco I. Per queste partite, da definirsi di élite, venivano indossate dai nobili calcianti sfarzose "livree" e scelti, quali terreni di gioco, le piazze più significative della città che raggiungevano in corteo, preceduti da trombetti e tamburini attraverso il centro cittadino. Prima dell’inizio della partita le due squadre facevano il giro d’onore sul terreno di gioco per poi, dopo il rituale sorteggio, disporsi ordinatamente in una delle due parti del campo. Nelle tribune appositamente allestite assisteva uno stimato ed elegante pubblico intervenuto per l’occasione, mentre a sorvegliare sul buon andamento del gioco arbitri e Maestro di Campo sedavano liti e sancivano il punteggio.
Il giorno dell’incontro diventava così la ribalta delle ambizioni e del prestigio, onde qualificare ancor meglio i ruoli di potere dei nobili e dei big del momento. Essi ponevano una cura eccezionale a ogni vestimento, sia da rappresentanza che da competizione, per cui l’aspetto competitivo si unisce a quello esteriore, in una manifestazione coreografica di eleganza e di ricchezza. Tutto ciò in netta contrapposizione con le partite giocate "spontaneamente" dal popolo, con la palla di stracci, in modo semplicissimo, connotate dal solo carattere sportivo, senza nessun tipo di organizzazione, per le strade ed in luoghi dimensionalmente e urbanisticamente inadatti. A testimonianza di ciò si possono ancora vedere lapidi di pietra sulle facciate di palazzi, chiese e case del centro storico, fatte apporre dai Signori Otto di Guardia e Balìa che vietavano il gioco della palla sotto pena dei soliti tratti di corda. Ma spesso anche questi "avvertimenti" non erano sufficienti ad evitare l’ormai radicato costume di giocare con la palla un po’ dappertutto. Infatti, da una supplica rivolta al granduca da parte degli abitanti della popolare via Maffia nel quartiere di Santo Spirito, veniamo a conoscenza che pure quella strada si mutava spesso e volentieri in "campo di calcio". La supplica tendeva a far smettere quell’improprio uso che vedeva sbarrato l’accesso della strada da ambo i lati, mediante panche poste di traverso a simulazione dello steccato per le "cacce". Ovviamente le panche che impedivano di fatto il passaggio di carrozze, barrocci, e carretti, davano noia anche ai semplici passanti i quali, rientrando alle proprie abitazioni, dovevano necessariamente superarle ed essere soggetti a pallonate che forse non erano neppure del tutto gradite. La supplica una qualche conseguenza positiva, in effetti, la procurò davvero perché poco tempo dopo (sempre dalle carte d’archivio), i "rassegnati" abitanti di via Maffia nel ringraziare puntualmente il granduca per il suo autorevole intervento, facevano notare che adesso le cose andavano assai meglio, in quanto l’accesso alla strada era molto più agevole, perché gl’improvvisati calcianti ( bontà loro) avevano sostituito le ingombranti panche … con delle seggiole!
Pur nella divisione delle classi il "calcio fiorentino" in quanto ludo, anche se "aristocratico" non era appannaggio ed esclusiva proprietà dei soli nobili, ma costituiva sempre più un divertimento cittadino di estesa aggregazione sociale, a cui partecipava emotivamente tutta la popolazione con spirito agonistico in una realtà viva e vitale.
Da questa se pur breve analisi, appare evidente la conferma che il gioco del calcio fiorentino non può essere nato all’improvviso in piena epoca medievale in un ambiente dominato da una dignità cavalleresca e cortigiana (che aveva segnato la vita civile), sempre legata favorevolmente ai "tornei" ed alle "giostre" più che al gioco di palla, ma deve necessariamente collegarsi alla remota origine romana, rimasta tenacemente in vita sebbene via, via adattata alla mentalità fiorentina, dell’ardire, del senso della bellezza e del buon gusto espressi ovunque, persino in questa realtà "duale" di agonismo sportivo.
Come abbiamo visto il calcio fiorentino veniva giocato un po’ dovunque, senza un preciso luogo fisso, anche se i luoghi di una certa ampiezza come le piazze erano ovviamente preferiti. Preferito però da tutti, nobili e popolani, era giocare nel periodo invernale (specialmente per Carnevale), in quanto, richiedendo il gioco un notevole dispendio di energie, diveniva troppo faticoso praticarlo nei mesi estivi.
Tra il Quattrocento e il Settecento abbiamo, da scrittori e cronisti, le maggiori notizie e descrizioni dell’evento ludico "organizzato" divenuto un fatto sociale molto importante, come appunto lo stanno a dimostrare il gran numero di testimonianze che lo riguardano.
Un poeta anonimo probabilmente del XV secolo (forse Bruscaccio da Rovezzano, rimatore del Trecento?) ci ha lasciato una gustosa e colorita descrizione in versi di una partita "popolare" giocata in piazza Santo Spirito alla quale lui stesso aveva assistito. Il rimatore ci fornisce, in ottava rima, un’efficace "radiocronaca calcistica" dell’epoca (forse il più antico documento narrante le fasi del gioco), della quale mi piace riportare una delle ventiquattro strofe che la compongono:
Doe mi parve il suon presi il cammino,
e d’un passo in un altro, feci tanto,
che ‘n sulla piazza di Santo Agostino,
over che sia dello Spirito Santo,
giunsi, dov’era un popol pellegrino,
intorno intorno, e resta voto il centro,
che impossibil sarebbe dire il quanto,
infuor trenta garzon che vi son dentro.
Dal registro dei Priori della Repubblica Fiorentina, per mano di Niccolò Ridolfi si conosce che il 10 gennaio 1490 (...) il fiume Arno diacciò sì forte che vi si fece sopra al Calcio fra Ponte Vecchio e Santa Trinita. Sempre sullo stesso argomento lo speziale, cronista Luca Landucci, nel suo Diario annota: E a dì 10 di gennaio 1490 ghiacciò tutto Arno in modo che vi si fece su alla palla, e arsevi scope; fu gran freddo. Anche lo storico Scipione Ammirato nella sue Istorie Fiorentine accenna allo stesso eccezionale episodio atmosferico con le seguenti parole: (...) ghiacciò Arno per modo forte, che per tre dì continovi vi si fece il Calcio. Vent’anni dopo si ripresentarono le stesse condizioni di freddo pungente derivato dalle bassissime temperature invernali; per cui Bartolomeo Masi ci fa sapere che l’Arno era talmente ghiacciato da consentire l’attraversamento camminando comunemente come uno farebbe andare in su una piazza; e facevasi su al Calcio, come si fa l’anno al Calcio in sul prato Ognisanti.
Paolo Mini, nella sua Difesa della città di Firenze (Lione, 1577), scrive sul gioco del calcio in livrea, che la città di Firenze: (...) avanza in questo e supera ogni altra città del mondo, sendo egli suo proprio gioco.
Un’altra definizione del gioco (di quello naturalmente organizzato) è data da Antonio Scaino da Salò nell’opera Trattato del gioco della palla del 1555, che con questi concisi, ma ben chiari termini così lo descrive: Il Calcio è un gioco pubblico di due schiere di giovani a piede e senz’armi, che gareggiano piacevolmente di far passare di posta, oltre l’opposto termine, un mediocre pallone a vento a fine d’onore. Sempre l’autore aggiunge inoltre: Si fa questo gioco con palla da vento di peso d’once dieci alla sottile e di diametro sette, molto più molle et più pastosa di quella da pugno.
Il "Puro Accademico Alterato", uomo d’arme, letterato, poeta nonché cultore di scienze, Giovanni Maria de’ Bardi dei conti di Vernio scrisse, nel 1580, addirittura un testo sul divertimento preferito dai fiorentini intitolandolo Discorso sopra il Gioco del Calcio Fiorentino nel quale, riferendosi naturalmente alle partite in livrea, così si esprime: E’ un gioco nobile e gentile e nel quale non è comportarsi gentame, non artefici, non servi, non ignobili, non infami, ma soldati onorati, gentiluomini, signori e principi. Ed è proprio con questi capitoli del Bardi, che si ha finalmente l’istituzionalizzazione del gioco, in quanto con tale documento ufficiale vengono dettate le regole e le modalità di svolgimento.
Lo storico Francesco Bocchi, nel 1591 pubblicò "per comodo de’ Forestieri" la prima guida della sua città intitolandola Le bellezze di Firenze, nella quale, fra le moltissime indicazioni, giunto a descrivere piazza Santa Croce riporta anche, e vorrei dire soprattutto, notizie sul gioco del calcio:
E’ bellissima questa piazza per le case, onde è messa in mezzo con grazia a guisa di teatro: ma il Tempio, che risiede magnificamente alquanto in alto, le dà oltre la bellezza, dignità (...) è divisa con misura in ogni parte, e con pali e steccata intorno intorno; onde i giovani ogni anno nel tempo di Carnevale, che si fa il giuoco del Calcio, più acconciamente si esercitino. Quelli che di forze sono robusti e destri di persona, di giovanile età, di sangue nobile, due ore prima che il sol tramonti, circa un mese innanzi che venga la Quaresima, ogni giorno fanno adunanza; e spogliandosi le veste, che impediscomo l’atteggiar la persona, come chiede il giuoco del pallone, con fierezza più destra, che pensar si possa, si esercitano. Perché scelto il numero di LIV giovani eletti, e divisi in due parti, è incredibile a dire quanto facciano bella vista nella velocità e nella destrezza del corpo, e nel fiore dell’età; usando maggiore sforzo che si puote, come sembra l’un parte e l’altra, che combatta com’è usanza tra due eserciti, con gran fierezza.
Nel 1618, Gabriello Chiabrera nel suo Per lo gioco del pallone celebrato in Firenze, inneggiava poeticamente alla palla con queste parole: Cuoio grave rotondo in cui soffio di vento è prigioniero. Infatti la vescica di animale racchiusa nell’involucro sferico a quattro spicchi (nelle partite ufficiali quasi sempre due rossi e due bianchi) veniva gonfiata con un mantice o con un’apposita pompa (già in uso nel Cinquecento) detta "siringa".
Tutto questo soltanto per citare alcuni esempi dei tantissimi scritti sull’argomento dei secoli passati, anche se sono convinto che un gran numero di dati, tuttavia, resta ancora sepolto. Le citazioni sono state riportate al solo scopo di far rilevare non soltanto l’aspetto dell’antichissima origine, della nobiltà e dell’utilità fisica e morale del gioco che si diffuse a macchia d’olio oltre i confini della città, nella regione e dentro e fuori d’Italia, ma soprattutto per sottolineare la considerazione che i fiorentini avevano per il "loro gioco", mai considerato esclusivamente come lotta agonistica di sopraffazione fine a se stessa, ma spettacolo ludico di gagliardia, di bel gioco ricreativo ed eleganza di modi e del vestire.
Ma Firenze non fu il solo "teatro" dove i fiorentini giocarono al Calcio. Abbiamo infatti notizia di due partite giocate nella città del Vaticano: una il 7 gennaio 1521 alla presenza di Papa Leone X, nel cortile del Belvedere, e l’altra nel 1570, organizzata alle Terme di Diocleziano dall’allora cardinale Ferdinando de’ Medici per onorare la nomina a granduca di Toscana di suo fratello Cosimo I. Questa fu una partita talmente pomposa da essere paragonata ad una festa di corte, e che Filippo Clementi così descrive: La Nazione fiorentina accomodava con molta spesa una piazza nelle Terme Diocleziane, dove si radunavano con un concorso grande a giuocare al calcio et il cardinal De Medici donava premi alli vincitori.
Nel 1575 il calcio fu giocato anche a Lione, in Francia, in onore del re Arrigo III di Polonia di passaggio da quella città per andare a prendere possesso del trono francese vacante per la morte del fratello Carlo IX. Era la fine del mese di gennaio, all’inizio del Carnevale; la città aveva disposto per lui grandi accoglienze fra le quali appunto, allestita dai fiorentini presenti a Lione per ragioni commerciali, anche una partita di Calcio in Livrea. L’incontro fu disputato fra nobili fiorentini conforme si praticava di fare in que’ luoghi della loro città, come descrive Tommaso Rinuccini nelle sue Memorie, in onore appunto del futuro re di Francia, in quanto lo sentivano a loro vicino perché figlio di Caterina de’ Medici. Il Re Arrigo accettò l’invito, e ne fu spettatore del Giuoco. I nobili calcianti delle due squadre indossarono rispettivamente livree di raso giallo con guarnizioni d’argento e di raso bianco con guarnizioni d’oro; vinsero quest’ultimi fra l’entusiasmo degli spettatori francesi e del futuro re che, nel discorrere con loro, prima che partissero dalla sua presenza, domandò ad essi, se tutti i Fiorentini erano belli, e grandi come essi.
Il gioco del calcio, nelle sue diverse caratteristiche sia "organizzate" che "libere", significò per l’immaginario collettivo un modo unico per sentirsi nella città, con la città. Infatti quasi ogni occasione di svago, di riposo e quelle determinate da solenni festività, diventavano i momenti dove giocare o veder giocare alla palla era "fiorentinità" e basta. E’ intorno a questo spettacolo ludico che Firenze veniva a riconoscersi, infatti l’occasione, determinata anche dalla ricorrenza dei giorni di festa, proponeva a quelle classi, che per la loro posizione economica e politica avevano relazioni con altre città e stati, di ostentare, specialmente durante e dopo il Rinascimento, i segni della loro agiatezza e condizione. Con queste caratteristiche il calcio durò fino all’estinzione della dinastia medicea nel 1737. Le ultime due partite "in livrea" furono organizzate nel febbraio del 1739 dall’aristocrazia fiorentina, che si assunse in proprio (come sempre) i gravosi oneri finanziari, per far festa ai nuovi sovrani della dinastia lorenese. Ma proprio l’avvento dei Lorena coincise con la repentina decadenza del "gioco in livrea" tanto da provocarne l’interruzione, seguita più tardi, sia pure con graduale affievolimento, da quella del gioco popolare.
Due riprese ebbero tuttavia luogo in tempi relativamente recenti: nel 1898, quando i calcianti rossi e azzurri disputarono una partita allo sferisterio delle Cascine alla presenza dei regnanti Umberto I e Margherita di Savoia, in occasione dei festeggiamenti organizzati in onore di Paolo Toscanelli dal Pozzo e Amerigo Vespucci e nel 1902 (ancora con i colori rosso e azzurro), in piazza Santa Maria Novella.
Non è molto difficile, anche grazie all’abbondante iconografia delle varie epoche a noi pervenuta, rendersi conto dell’importanza che per la città ha avuto il gioco del calcio. Moltissime le partite di cui viene fatta menzione nella storia fiorentina, tuttavia quella più celebre (nel ricordo della quale vive ancora oggi la tradizione) passata agli onori della cronaca e della storia per il critico momento in cui si verificò, fu certamente quella giocata il 17 febbraio 1530 durante l’assedio posto dall’esercito di Carlo V, che segnò la fine della libertà repubblicana. La partita fu giocata alla presenza di tutte le autorità, un po’ per non interrompere l’usanza del gioco nel periodo di Carnevale ormai consolidata, un po’ come sfida al nemico assediante. Infatti questo concetto è esplicitamente riportato da Benedetto Varchi nella sua Storia Fiorentina:
Alli 17 i Giovani, sì per non intermettere l’antica usanza di giuocare ogn’anno al Calcio per Carnasciale, e si anco per maggiore vilipendio de’ nemici, fecero in sulla Piazza di S. Croce una partita a livrea; XXV Bianchi, e XXV Verdi, giocando una vitella: per essere non solamente sentiti, ma veduti, misero una parte di sonatori con trombe, e altri strumenti in sul comignolo del tetto di S. Croce; dove da Giramonte fu loro tratto una cannonata; ma la palla andò alto, e non fece danno a nessuno.
Ignoto è il risultato di quella memorabile partita, che forse, proprio volutamente, i precisi cronisti dell’epoca evitarono di fornirci per accomunare vincitori e vinti in un plauso che rimarrà indelebile nelle generazioni future. Qualsiasi sia stato il punteggio ottenuto dalle due squadre, il senso della contesa non poteva non superare per ogni giocatore gli effetti della vittoria o della sconfitta. Quella che giunge a noi oggi, come memoria di un vissuto cittadino collettivo, è la testimonianza della forza di un costume sportivo e dello spirito di un popolo in un momento tragico della sua storia. Ai difensori di Firenze mancò la fortuna, non certamente il valore, dimostrato continuamente nei lunghi giorni dell’assedio e che può considerarsi ben rappresentato dalla fiera e dignitosa figura di Francesco Ferrucci.
Nel 1930, proprio per onorare la memoria e le virtù civiche del valoroso condottiero fiorentino, nel quarto centenario della morte, un comitato cittadino decise di far rivivere il calcio fiorentino, ispirandosi alla famosa partita del 17 febbraio 1530. Venne però cambiato, per ragioni ambientali, il terreno di gioco: alla ormai inagibile piazza Santa Croce (ai lati della quale peraltro erano rimasti il battipalla di marmo murato sulla facciata del palazzo degli Antellesi, e il segno della linea di centro campo sul palazzo prospiciente) fu sostituita quella, ancor più prestigiosa, di piazza della Signoria e, per alcuni anni (limitatamente alla prima partita) l’anfiteatro del giardino di Boboli.
Da quella data, ogni anno, tranne che in periodo bellico, in occasione dei festeggiamenti di San Giovanni Battista patrono di Firenze, la città rivive l’appassionante contesa di un fascinoso memorativo viaggio nel passato, che nemmeno la tragica alluvione del 4 novembre 1966 riuscì a interrompere. Fra l’agonismo delle squadre dei quattro quartieri storici, in tre accanitissime partite, si designa il vincitore; senza trionfalismi ma con la convinzione di rivivere, nelle trame del passato, relazioni sociali della realtà moderna.
Il multicolore corteo composto da cinquecentocinquanta componenti che, con le livree dei calcianti, le divise dei nobili cavalieri (scelti fra i discendenti delle storiche famiglie fiorentine), e dei fanti, con le armi e le bandiere dell’epoca, ci riportano come per incanto nell’eccitante, allegra e festaiola atmosfera del Rinascimento. Tutto come allora!
Le manifestazioni sono sempre seguite da una folla considerevole di fiorentini e turisti, che gremisce immancabilmente le tribune, in attesa non solo dell’inizio delle tradizionali partite, ma anche della spettacolare e maestosa sfilata del corteo storico e della policroma coreografia dei rituali prima della disfida. Il rullo dei tamburi, lo squillare delle chiarine scandiscono, infatti, i tempi e accompagnano le ritmiche evoluzioni dei Bandierai degli Uffizi che in perfetta sincronia mulinano e lanciano le proprie insegne in festanti quanto spettacolari esercizi d’abilità; quindi il "saluto" dei personaggi, seguito dalla lettura della grida al "magnifico messere", poi gli spettatori, immedesimandosi nella foga del gioco, passano ad incitare l’una o l’altra squadra. Da subito i cinquantaquattro calcianti (ventisette per parte) accesi di spirito di parte e d’ansia di vittoria, intrecciano trame di fitti passaggi, prese aeree del pallone, zuffe, plateali placcaggi e mischie dando vita ad un gioco vivo e serrato che ha qualcosa del moderno rugby e della lotta libera. Ad ogni "caccia" (goal) segnata, lo sparo delle colubrine sancisce il punto per l’una o l’altra squadra; allora si inverte il campo: i giocatori che hanno marcato, col sorriso sulle labbra e la bandiera del proprio quartiere al vento, i vinti con la faccia seria e con l’insegna bassa e avviluppata all’asta. L’accanimento dei contendenti rende via via più cruenta la lotta ed accresce, per conseguenza, l’ansia del pubblico e delle rispettive accesissime tifoserie. Alla fine dei cinquanta minuti regolamentari, la squadra vincente riceve in premio una bianca vitella, ritirata festosamente dai calcianti ormai con le maglie a brandelli o a torso nudo. Un "Gridate con me Viva Fiorenza" è l’invito conclusivo del Capitano di Guardia del Contado e del Distretto al termine dello scontro, a cui fa eco il patriottico "VIVA FIORENZA" urlato a squarciagola da tutti i componenti del corteo storico.
Com’è noto, nessuna venale paga monetaria viene corrisposta agli atleti. Niente di mercenario in questa battaglia combattuta solo per far vincere i colori del proprio quartiere. Unico compenso la vitella, o meglio bistecche ad essa equivalenti da consumarsi in un banchetto finale.
Questo è dunque il calcio fiorentino, che vive e si svolge ancora nell’agonismo di quartiere e con fiorentinissimo spirito. Il gioco oggi è purtroppo sbrigativamente classificato da qualcuno "folkloristico", ma invece si tratta, come abbiamo visto, di una "disciplina sportiva" tradizionale della città, che la fa ricordare nel mondo oltre che per il suo immenso ed ineguagliabile patrimonio artistico, anche per il tipico gioco del calcio nato e cresciuto in e con Firenze. Gioco che ha prodotto cultura e civiltà originando, per le tantissime affinità, il moderno Foot-ball esportato con precise regole sotto il marchio del "made in England", sebbene i suoi natali siano inequivocabilmente da ricercarsi non in Inghilterra bensì a Firenze.
Luciano Artusi