Parlare oggi di Pellegrino Artusi non vuol essere un romantico omaggio al nostro avo, bensì la continuazione di un dialogo con lui che aveva un profondo amore per la vita e la capacità di saperlo trasmettere al prossimo. Conseguenza di ciò, in onore di questo “protagonista” che seppe per primo riunire tipiche pietanze regionali in un’unica opera letteraria, oggi universalmente nota, è importante “riscoprirlo”. Pertanto, con il presente sintetico racconto, vogliamo presentare a quasi due secoli dalla sua nascita, questo romagnolo che visse per trent’anni a Forlimpopoli e per sessantuno a Firenze, città dove scrisse il famoso trattato di gastronomia.
Luciano Artusi
Uomo di scienza, cultura, critico letterario, nazionalista, scrittore attentissimo ai fatti di lingua, igienista, gastronomo, Pellegrino Artusi trascorse la sua vita fra la Romagna e la Toscana. Autore del famosissimo manuale di alimentazione La Scienza in Cucina e l’Arte di Mangiar Bene, che ebbe larghissima popolarità per la sua prosa scorrevole e simpatica, grazie al corretto italiano con cui fu scritto, contribuì all’unificazione linguistica della Nazione. Infatti, nei suoi scritti si percepisce un’idea di Nazione ed il progetto di unificare il futuro dell’idioma italico, basato su tali valori, nel rispetto di tutte le regioni e dei loro passati splendori.
Pellegrino nacque a San Ruffillo di Forlimpopoli, in provincia di Forlì, il 4 agosto 1820, da Agostino detto Buratel (piccola e veloce anguilla), danaroso mercante e da Teresa Giunchi, di buona famiglia di Bertinoro, in una patriarcale famiglia che, nel tempo, dette vita a ben tredici figli: nove femmine e quattro maschi, tre dei quali deceduti ancora piccolissimi, Pellegrino, rimasto l’unico maschio di famiglia, frequentò la scuola locale, studiò prima nel seminario di Bertinoro e poi all’Università di Bologna, senza però arrivare a raggiungere la laurea. Traferitosi una prima volta a Firenze nel 1848 per motivi di studio, ritornò ben presto a Forlimpopoli per coadiuvare il padre nella gestione dell’affermata drogheria di famiglia. Il 25 gennaio 1851 -Artusi aveva 31 anni- la pacifica ed assonnata cittadina romagnola fu sconvolta dalla brutale incursione di brigantaggio operata dal bandito Stefano Pelloni detto il Passatore (dal mestiere del padre, traghettatore del Lamone, ossia “passatore” appunto del fiume), a seguito della quale gli Artusi decisero di lasciare per sempre la terra natale e di trasferirsi definitivamente a Firenze.
Il fatto delittuoso avvenne durante una fredda e piovigginosa notte invernale, nella quale tutte le famiglie facoltose del paese erano al teatro civico, successivamente intitolato a G. Verdi, per assistere alla rappresentazione del dramma
Morte di Sisara, e precisamente all'inizio del secondo atto, sotto la minaccia dei "tromboni" la banda del
Passatore, composta da 16 malfattori prese in ostaggio i presenti, obbligandoli a consegnare gioielli e somme ingenti.
La famiglia Artusi non era presente in sala, cosicché i briganti si recarono sotto la loro casa, che era poco distante e certi che a quell’ora nessuno avrebbe aperto loro la porta, “convinsero” sotto la minaccia delle armi un amico di famiglia, tale Ruggero Ricci, figlio dell’Avvocato Melchiorre, a trovare il modo di far aprire l’Artusi. Il Ricci, spaventato e nell'impossibilità di poter reagire, batté ripetutamente alla porta di casa, urlando ad Agostino di aprire, in quanto erano giunti da Rimini dei facoltosi commercianti di zucchero, caffè ed altre spezie, per cui vi sarebbero stati sicuri affari. Agostino, affacciato alla finestra del primo piano, ascoltò e fidandosi dell’amico Ruggero, scese ed aprì la porta.
I banditi malmenando i presenti invasero e depredarono la casa, due delle sorelle, Rosa e Maria Franca riuscirono a mettersi in salvo al piano mezzanino, nascondendosi all'interno di un camino, tirando a sè la copertura parafuoco dello stesso. Purtroppo la sorella ventiquattrenne, Geltrude Marianna (chiamata abitualmente Gertrude), atterrita ed inseguita nelle buie stanze, "
dopo una lotta disperata con alcuni di costoro" subì violenza da parte degli stessi. Solo successivamente poté sottrarsi a tale scempio scappando dall'abbaino su per i tetti delle case adiacenti. Fu poi ricondotta a casa dal vicinato in un profondo stato di shock. A seguito di tale vessazione iniziarono i primi cenni di disagio e poi di pazzia, tanto che il 16 Luglio 1855 fu ricoverata nel manicomio di Pesaro, dove a 49 anni morì.
Nell’autobiografia manoscritta del 1903, Pellegrino fa riferimento alla persecuzione e all’accanimento della sfortuna per la sorella, in quanto il cimitero dove venne sepolta fu successivamente messo a soqquadro per il lavori di ampliamento della Stazione ferroviaria di Pesaro. C’è un racconto nell’autobiografia di Pellegrino Artusi relativo alla sera dell’incursione, un segreto mai divulgato e tenuto scrupolosamente in famiglia, in quanto pericoloso per un romagnolo prima dell’Unità d’Italia, una sorta di risarcimento dopo il 1860, per un anticlericale patriota, infatti, sembra che nel gruppo ci fosse anche un sacerdote rinnegato.
.....c’era una figura sinistra a far le veci del Passatore:
Mi è rimasta sempre presente quella faccia crudele, dal cuor di tigre, che da me supplicato, che cercasse di moderare i compagni a non commettere turpitudini, stava silenzioso e duro come un macigno. Dai connotati, dal volto raso, dai lineamenti non rozzi e dal tutto insieme, costui non poteva essere che l’infame prete Valgimigli e non m’inganno di certo, sapendosi che qualche volta partecipava di persona alle imprese.
Un prete delinquente, dunque, a capo della banda.....
Pochi giorni dopo la violenza, Pellegrino si rivolse ai genitori esternando questa risoluta decisione: “
Io vi lascio per sempre, ritorno a Firenze, seguitemi se credete”. L’energica decisione convinse i genitori e, precisamente nel maggio 1851, gli Artusi, ancora scioccati dall'orribile vicenda e delusi dal "tradimento" dell’amico Ruggero, non sentendosi affatto tutelati dalle autorità cittadine ed anche a causa del continuo imperversare della banda del Passatore, decisero di lasciare definitivamente Forlimpopoli e trasferirsi in un luogo più sicuro, di gusto e civiltà. Vennero frettolosamente vendute casa e bottega, dopodiché la famiglia traslocò a Firenze in via dei Calzaiuoli all’angolo con piazza della Signoria, al terzo piano del settecentesco Palazzo dei Conti Bombicci, quando nel capoluogo del Granducato, presieduto dal Granduca Lorenese Leopoldo II detto Canapone, iniziarono i primi moti volti all’indirizzo dell’unità del Paese. Il 27 aprile 1859, ad un giorno di distanza dallo scoppio della seconda guerra d’indipendenza, indotto da un’incruenta e civile manifestazione popolare, l’ultimo Granduca di Toscana abbandonò Firenze.
L’avvenimento è così annotato da Pellegrino, nella sua autobiografia: “
Farà epoca negli annali storici questa rivoluzione senza spargimento di una goccia di sangue”. In quell’anno memorabile, che coincise con la morte della madre Teresa (avvenuta il 17 aprile ed inumata nella cripta della chiesa di Monte Oliveto), la famiglia Artusi cambiò casa e si trasferì al n. 2 di Via dei Cerretani, al Canto alla Paglia, nell’antico Palazzo de’Marignolli, occupando tutto il primo piano del grande appartamento che servì, oltre ad abitazione anche da banco, ai quali si accedeva da due separati ma adiacenti ingressi. Con l’allontanamento del Granduca il dominio Austriaco era così finito e l’11 marzo 1860 fu espresso dalla popolazione il voto per l’annessione della Toscana al nascente Regno. L’anno successivo il Parlamento Italiano riunito a Torino promulgava il Regno d’Italia, di cui Firenze fu la capitale provvisoria dal 1865 al 1870. In quei cinque anni da Firenze sbocciò un nuovo modo di vita nazionale e unitario, con gran vantaggio della lingua che iniziò a divenire veramente “della Nazione”, soffocando vernacoli e i tanti diversi dialetti. Pellegrino fu uno dei primissimi ad influire in tal senso. Egli visse quegli anni condividendo le vicende del Risorgimento fra intellettuali, artisti e politici dell’epoca, in una condizione di agiatezza, dovuta alla sua attività di commerciante di tessuti di seta ed alle rendite dei poderi di Pieve Sestina di Cesena e di Sant’Andrea in Rossano di Forlimpopoli, senza peraltro mai perdere di vista la passione per la letteratura e la cucina.
Il 14, LUGLIO 1861 anche il padre di Pellegrino morì, affetto da paralisi progressiva ed ebbe dignitosa sepoltura nella Basilica di San Miniato al Monte.
QUI TROVO’ RIPOSO
AGOSTINO ARTUSI DI FORLIMPOPOLI
OMO DI CHIARA FEDE E LEAL MERCANTE
IL QUALE PER ANNI 40 AVVANTAGGIANDOSI
DE COMMERCI RECO’ LA SUA CASA A COMODO STATO
E SI A DEGNA REPUTAZIONE
TROVO’ LA SUA FINE A BAGNI DI S.GIULIANO
ONDE SPERAVA SALUTE AD OSTINATA PARALISI.
NEL 14, LUGLIO 1861
PELLEGRINO FIGLIO P.Q.L.
Dopo la morte del padre, Pellegrino si prodigò nella ricerca di un marito per ciascuna delle sorelle, cosa che riuscì anche abbastanza velocemente, anche in ragione della dote messa a disposizione. Sposate le sorelle Rosa e Maria Francesca, Pellegrino abbandonò il commercio e si trasferì in una nuova casa. Per Lire 1.300 annue riuscì ad affittare un grazioso villino, in Piazza D’Azeglio al n. 25 (oggi Piazza Massimo D’Azeglio n.35), dove tranquillamente condusse la sua esistenza assieme al cuoco, alla cameriera ed ai suoi gatti Biancani e Sibillone. Ai due pacifici felini, che lui stesso definì “
i miei migliori amici dalla candida pelle”, Pellegrino dedicò addirittura la Prima Edizione della sua opera
La Scienza in cucina e l’Arte di Mangiar Bene, affidata nel 1891 all’editore fiorentino Landi. I nomi dati dall’Artusi ai suoi due gatti derivavano, il primo, Biancani, dal vezzeggiativo romagnolo biancasen, ossia bianco ed il secondo, Sibillone, dall’omonimo svago molto in voga negli ambienti intellettuali dell’epoca, ovvero una sorta di gioco culturale, un indovinello, a volte svelato anche in rima. Pellegrino, infatti, partecipava spesso a questi “crocchi letterali” ospite di Accademie e noti salotti di cultura cittadini, dove nasceva la moderna cultura italiana, passando lietamente il tempo col dare e ricevere utili ed erudite cognizioni, proprio giocando al Sibillone. Vivendo di rendita, sempre elegantissimo e irriducibile scapolo, nonostante come lui stesso scrisse “
mio padre negl’ultimi anni della sua vita pareva che quasi mi odiasse perché lo lasciavo privo di discendenza” si dedicò, fino alla sua morte avvenuta il 30 marzo 1911, alla letteratura pubblicando alcuni saggi fra i quali una biografia del poeta Ugo Foscolo e una critica di trenta lettere di Giuseppe Giusti. Scrisse e dette alla stampa la Scienza in Cucina (l’opera che lo rese celebre), curandone accuratamente le ristampe sino alla quindicesima edizione; compose infine la sua autobiografia che restò, volutamente, soltanto manoscritta.
Amò sempre Firenze, fu a contatto con il fervido ambiente intellettuale e politico sia nel periodo pos-unitario, sia quando Firenze divenne capitale del Regno Unito e sia nel successivo momento più difficile per la città, che comunque non abbandonò mai. Dimostrò una particolare propensione ad aiutare il prossimo e manifestò questo generoso impulso anche in ultimo, lasciando parte dell’eredità al natio Comune di Forlimpopoli per opere sociali. Appassionato di gastronomia e raffinato buongustaio, si applicò con criteri scientifici ed igienici all’arte culinaria, creando a casa propria un’autentica cucina sperimentale, dove operava in équipe con il cuoco compaesano Francescoi Ruffilli, che si occupava anche degli acquisti giornalieri e la cameriera Marietta Sabatini di Massa e Cozzile, i quali collaboravano alla creazione di appetitose e pratiche ricette adatte a tutte le famiglie. Un impegno quotidiano, dove genuini e selezionati prodotti si combinavano con creatività a formare gustosi piatti, anche nel rispetto delle stagioni. Soltanto dopo aver provato e riprovato, piatto dopo piatto e solo quando il risultato della combinazione delle vivande aveva raggiunto la perfezione, le ricette venivano trascritte nel manuale, accompagnate da riflessioni e aneddoti narrati in maniera briosa, impeccabile ed arguta. Un trattato di cucina declinato al buon gusto, all’igiene, alla manualità ed all’economia, infatti, per alcune ricette, era consigliato riutilizzare anche gli “avanzi”, perché in cucina non si doveva sprecare niente; famose le sue parole-preghiera:
Amo il bello ed il buono ovunque si trovino e mi ripugna
di vedere straziata, come suol dirsi, la grazia di Dio.
Amen.
Pellegrino, in quest’ultima dimora di piazza d’Azeglio visse fino a novantuno anni, raggiungendo qui la popolarità proprio in virtù del suo semplice e descrittivo manuale composto inizialmente da 475 ricette, passate poi a 790, che dagli antipasti (da lui chiamati Principii), terminava con i Liquori, un vademecum da lui stesso definito “
talmente pratico e usabile da tutti, purché si sappia tenere in mano un mestolo”. Il libro di “cucina”, col passare degli anni e numerose ristampe, raggiunse una grandissima diffusione conquistando la massa popolare, sino a divenire il testo gastronomico dell’Italia unita, il ricettario di casa, da cui tutti trassero (e traggono ancora oggi) ispirazioni e suggerimenti, tanto da essere presente nei corredi di nozze delle giovani spose. Fu il libro più letto dagli italiani al pari di Pinocchio del Collodi, dei Promessi Sposi del Manzoni e di Cuore del De Amicis. Il professor Paolo Mantegazza, illustre igienista, antropologo, fondatore del Museo di Antropologia e Etnologia di Firenze, rivolgendosi all’autore scrisse: "
Nel darci questo libro voi avete fatto un’opera buona, e per questo vi auguro cento edizioni”. Il trattato risulta più volte citato anche nell’epistolario intercorso tra due grandi protagonisti del Novecento, i filosofi Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Oggi è una delle pubblicazioni italiane più diffuse nel mondo, tradotta in molte lingue:
inglese, spagnolo, tedesco, olandese, francese, l’ultima in portoghese uscita il 21 Novembre 2009, è di prossima uscita anche in Giapponese, conta più di 130 edizioni con milioni di copie vendute; certamente si tratta di un importante successo editoriale che ha fatto scuola di cucina, un libro scritto oltre un secolo fa e ancora talmente attuale da essere denominato usualmente “l’Artusi”.
Pellegrino Artusi riposa a Firenze nel Cimitero monumentale de “Le Porte Sante” a San Miniato, situato entro il bastione fortificato dell'Abbazia di San Miniato al Monte.
La sua tomba è riconoscibile dal cippo funerario in bronzo con base in pietra arenaria, opera dello scultore Italo Vagnetti, noto artista del periodo.